Immenso Clint

Ieri, finalmente, sono riuscito a vedere quel capolavoro che è Gran Torino…
Ho trovato una recensione di Gianni Canova che mi sembra perfetta.

Recensione [attenzione, se non volete leggere lo spoiler sul finale, saltate le parti in rosso!]

“Barbarians” ringhia Walt Kowalski, operaio in pensione di Detroit, mentre spia con disprezzo gli immigrati asiatici che vivono nella casa accanto alla sua. Strana gente, strani gusti, strane usanze. Da barbari, appunto. Che non parlano bene l’inglese, mangiano cibi disgustosi e non hanno alcuna intenzione di integrarsi nell’american way of life. Lui, che tiene la bandiera a stelle e strisce issata ben in vista sulla veranda di casa, da giovane ha combattuto in Corea, e ora i coreani se li ritrova in patria. In realtà sono Hmong, ma per lui non fa differenza. Sono comunque “musi gialli”, e stanno lì. Fianco a fianco. I nemici di un tempo divenuti vicini di casa. Li guarda attonito Kowalski, sputa per terra, scuote la testa e si siede sotto il portico della sua casa da vedovo per affogare nella birra il suo disgusto esistenziale.
Da quando sua moglie se n’è andata (abbiamo visto il funerale, proprio all’inizio del film), Kowalski è solo al mondo. Solo, a parte una cagnetta di nome Daisy e la sua Gran Torino del 1972, che assemblava quando faceva l’operaio in catena alla Ford. Non è un bel mondo, quello che Kowalski vede girargli attorno. Sicuramente, non un mondo perfetto. Ancor meno di quello che Eastwood aveva raccontato nel suo film di quindici anni fa dedicato, appunto, alla tragica incapacità del mondo di attingere alla perfezione. Ma qui, in Gran Torino, quell’imperfezione assume toni di un’amarezza finora sconosciuta. Roba da sputargli in faccia, a un mondo così. E Walt, appunto, sputa. Sputa e ringhia. Ringhia e brontola. Brontola e sibila. Sibila e impreca. «Sons of a bitch», ripete. Poi gira la testa dall’altra parte,  si siede in poltrona e sprofonda nel buio. Anche il quartiere in cui vive, ormai, gli fa schifo. Squallido, misero, degradato. Senza neppure l’epos tragico di certe città tribali di Martin Scorsese. Qui le gang che scorazzano per le vie quasi sempre deserte sono fatte di ragazzotti obesi e di mediocri malavitosi, incapaci di genio e grandezza perfino nel crimine. C’è un’aria triste, crepuscolare quasi, che aleggia per le strade, e cola sui muri delle case, e striscia negli interni domestici mediocremente arredati. Qui i neri non stuprano le ragazzine asiatiche, si limitano a importunarle. Qui i messicani e i cinesi si abbaiano addosso gli uni agli altri, ma non arrivano quotidianamente ai coltelli e agli spari, alle faide e al sangue. Kowalski è l’unico yankee a non aver lasciato il quartiere. Anche se ormai ci vivono i barbari, lui resiste e resta lì, come un soldato asserragliato nel suo avamposto, mentre i “selvaggi” gli ronzano attorno, e lo irridono, e lo provocano. Sta lì, lucida la sua Gran Torino e cerca di fuggire al prete che cerca invano di indurlo al rito della confessione. Poi, all’improvviso, succede qualcosa. Succede che Kowalski si rende conto che non tutti i barbari sono uguali, e che anche fra i musi gialli c’è qualcuno che è un po’ meno disgustoso degli altri. Thao, ad esempio: il ragazzino che istigato da una gang ha tentato di rubare la Gran Torino – la sua auto feticcio – dal garage, e che tuttavia ha negli occhi e nei gesti qualcosa di gentile. Qualcosa che gli piace. O che gli dispiace meno del comportamento di quei membri della sua famiglia che gli propongono con il sorriso sulle labbra di lasciarsi rinchiudere in un ospizio e aspettare la fine in una prigione dorata. Sono “sons of a bitch” anch’essi, pensa il ruvido operaio razzista dell’ex capitale americana dell’automobile. Che comincia a frequentare il ragazzino muso giallo, e sua sorella, e la sua famiglia, trovando un argine alla sua solitudine proprio in casa di quelli che erano i “nemici”. Nella sua semplicità, nella sua compostezza, nel nitore della sua straordinaria classicità l’ultimo film di Clint Eastwood ci dice una cosa evidente che nessuno dei tanti razzisti e rondisti di casa nostra sarebbe mai disposto a sottoscrivere: e cioè che il valore o il disvalore di un essere umano non è mai iscritto a priori nella razza o nell’etnia di provenienza, che il Male non sta sempre e solo nell’Altro, nello straniero, nell’immigrato, e che le persone sono sempre più ricche e complesse e sorprendenti di quanto i nostri pregiudizi siano disposti a farci credere. Piccolo e sommesso esempio di grande cinema umanista, Gran Torino è un secco mélo intergenerazionale e, insieme, un romanzo di formazione interrazziale. Oltre che la messinscena di uno dei più memorabili personaggi creati da Eastwood per il grande schermo: un lupo solitario ruvido e disilluso, che dice di non sapere nulla della vita e della morte, se non che la morte l’ha vista in faccia in Corea, quando ha ucciso ragazzi come Thao, e che ora non vive ma sopravvive, come un fantasma che vagola nel buio. Come il révenant di Callaghan, verrebbe da dire, nell’era del disincanto e della globalizzazione. Perchè Kowalski non ha più nulla del giustiziere: non è un eroe del castigo, ma un martire involontario del sacrificio. A suo modo, è un eroe espiatorio: uno che immola se stesso, nello struggente e glaciale epilogo, per salvare ancora una volta i valori in cui crede, pur nella consapevolezza che a farli vivere dopo di lui, quei valori, sarà un ragazzino immigrato che gli ha insegnato, forse, qualcosa sulla vita. Ha dichiarato che probabilmente non farà più film come attore, Clint Eastwood. Ha detto che Walt Kowalski segna il congedo del suo corpo, del suo volto e della sua voce dallo schermo. Un personaggio testamentario, dunque: da cui l’Eastwood regista si commiata, non a caso, con una plongé che lo lascia giù, steso sul selciato, con il corpo trapassato dai proiettili con cui gli hanno sparato. Freddo, lontano. Nessun pathos, nessuna commozione. Gli eroi, quando se ne vanno, devono saper tenere gli occhi asciutti. E Clint lo fa. Il suo Kowalski – dopo aver imprecato per tutto il film come faceva il sergente Gunny sull’isola di Grenada – ora se ne va in silenzio, e scompare, come Frankie Dunn in Million Dollar Baby. Là la sua pietas lo induceva a lasciar morire un’amica, qui lascia morire se stesso per far vivere il suo unico amico in un mondo un po’ meno imperfetto. Lo sguardo con cui Eastwood regista osserva se stesso personaggio in Million Dollar Baby e in Gran Torino è identico. Lucido, asciutto, partecipe. E amorevolmente spietato

Bellissima recensione.

Per me Walt Kowalski è un uomo perfettamente conscio che non esiste più un mondo perfetto. Seduto sotto il portico della sua abitazione, con birra rigorosamente americana e bandiera a stelle e strisce, osserva con apparente disprezzo il quartiere e il mondo che cambia intorno a lui.
Eastwood ci fornisce una prova di regia perfetta, ogni singolo fotogramma è studiato, calcolato ai fini della storia, nessuna inquadratura inutile, nessun elemento inserito per far durare di qualche minuto in più il film, tutto è essenziale.
La bandiera americana, la birra americana, l’auto americana, l’uomo americano, circondato dai musi gialli, dai neri, dai nemici dell’america.
Ogni scena, ogni sguardo, ogni battuta è piena di significati.
In questo film troviamo il regista/attore affrontare con la consueta maestra tematiche quali il rapporto genitori/figli/nipoti (genetici e putativi), l’integrazione delle minoranze, lo sgretolarsi di una società che acquista gradualmente consapevolezza dei propri limiti, la religiosità, il senso di colpa e lo strettissimo legame tra vita e morte.
Probabilmente nessun altro interprete contemporaneo avrebbe mai potuto rendere con altrettanto efficace realismo una figura epica/tragica come quella di Walt.
Nell’immagine di Eastwood che beve birra in veranda, con al suo fianco, il suo cane,  l’unica vera amica rimasta spettatore può realmente percepire i profondi sensi di colpa («Quello che perseguita di più un uomo é ciò che non gli é stato ordinato di fare») che da troppi decenni tormentano mr. Kowalski, allo stesso modo, si rimane quasi investiti dal senso di liberazione che Walt prova preparandosi al finale, con una calma e una leggerezza che danno un senso di pace, ma che nello stesso tempo preparano al sicuramente tragico epilogo del film.

Dialoghi incredibili nella loro semplicità e profondità:

Walt Kowalski (Clint Eastwood)
Non mi farò confessare da un verginello ventisettenne appena uscito dal seminario imbottito di letture che gode a tenere le mani a vecchiette superstiziose.

Walt Kowalski (Clint Eastwood)
Avete mai fatto caso che ogni tanto si incontra qualcuno che non va fatto incazzare? [sputo]… Quello sono io.

Walt Kowalski (Clint Eastwood) e Martin, il barbiere (John Carroll Lynch)
Barbiere (Martin): Ecco qua, sembri davvero un essere umano adesso… ma perché fai passare tanto tempo fra un taglio e l’altro taccagno figlio di puttana?
Walt Kowalski: Mi meraviglio che tu abbia ancora la licenza. Io spero sempre che tu crepi e che qui finalmente prendano qualcuno che sa fare il suo mestiere e invece ci sei sempre tu con la grazia di quell’impasta pizze che sei…
Barbiere (Martin):Fa dieci verdoni Walt?
Walt Kowalski: Dieci verdoni? Cristo santo Martin… non sarai mica diventato ebreo? Ogni volta il prezzo è più alto
Barbiere (Martin): È dieci verdoni da quattro anni brutto testone di un polacco figlio di puttana
Walt Kowalski: (Paga con 10 dollari). Il resto mancia ragazzo
Barbiere (Martin): Ci vediamo fra venti giorni scimunito
Walt Kowalski: Sempre se tu ci arrivi sacco di me**a…
[Barbiere Martin ride]

Walt Kowalski (Clint Eastwood) e Padre Janovich (Christopher Carley)
Padre Janovich: Vuole vendicare l’ offesa fatta a Sue? Io andrò in quella casa oggi Mr. Kowalsky.
Walt Kowalsky: Davvero?
Padre Janovich: Si, ci andrò tutti i giorni finché lei non capirà che è una follia il suo piano.
Walt Kowalsky: Ho molto da fare, la saluto.
Padre Janovich: Vada in pace.
Walt Kowalsky: Ohh, io sono in pace.
Padre Janovich:…Cristo Santo…

Tutto è perfetto, anche la colonna sonora, eseguita dal grande musicista, figlio d’arte, Kyle Eastwood!
Vi lascio con la splendida e struggente canzone finale, capolavoro in un capolavoro, scritta da Eastwood con il figlio Kyle e Michael Stevens, è cantata da lui stesso e da Jamie Cullum.

Se questo è il testamento come attore di Eastwood (spero di no!), è quando di meglio si poteva aspettare dal mondo del cinema.

Immenso Clint

Dark!

Canzone finale.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=pOVdBPyjMlg[/youtube]